Sono sempre meno a causa del calo demografico e dell’alta richiesta di manodopera, e chi accetta la sfida non punta più su artigianato o manifattura. Hanno visione manageriale, ma non il capitale. Ed è un grande problema, perché abbiamo estremo bisogno di loro.
C’erano una volta i giovani imprenditori. Ragazzi usciti da percorsi scolastici altamente professionalizzanti, e pronti a mettersi in gioco rischiando in prima persona, ma con la consapevolezza di avere tutto da guadagnare. Parliamo di uno scenario che ci riporta agli anni ’80, un periodo in cui, complice un innalzamento del tasso di disoccupazione, sono stati tantissimi gli “under” a scegliere la strada dell’autoimprenditorialità a trazione artigiana. E non a caso nel 1985 è stata approvata la Legge Quadro sull’Artigianato, che per prima ha definito un importante quadro normativo per riconoscere, tutelare e incentivare questo tipo di attività.
40 anni dopo, lo scenario che ci troviamo di fronte si è diametralmente capovolto. Da un lato per elementi esogeni, primo fra tutti il calo demografico, che porta inevitabilmente a poter contare su meno “nuove leve”. Poi si aggiunge anche un elemento in realtà positivo come l’alto fabbisogno di manodopera tecnica, che ha elevato ai massimi il livello di occupazione under 35, frenando però l’interesse ad avviare nuove attività in autonomia.
Non bastasse questo a rendere complesso il contesto, ci si mettono pure la stretta sul credito (solo il 17,3% degli under 35 parte grazie al sistema bancario, il resto punta tutto su patrimonio personale o familiare) e le difficoltà diffuse a creare le condizioni per efficaci passaggi generazionali all’interno delle attività familiari già avviate.
Il risultato? In un decennio il Veneto ha perso il 27% delle attività giovanili (dato anche più alto della media nazionale al 23%), ossia circa un’impresa in meno ogni due giorni, ininterrottamente per 10 anni.
Le imprese giovanili rappresentano da sempre un indicatore chiave della vitalità economica di un territorio. I numeri ci pongono adesso di fronte a una realtà complessa, che va prima di tutto analizzata e poi affrontata, per tornare a mettere le nuove generazioni sul binario giusto dal punto di vista dell’impresa.
Un’economia che cambia volto
Sebbene siano circoscritti alla sola provincia berica, gli ultimi dati che CNA ha raccolto dalla Camera di Commercio di Vicenza rappresentano un buon tornasole di quanto sta avvenendo un po’ su tutto il territorio regionale. A Vicenza le imprese giovanili pesano meno sullo stock complessivo delle imprese (7,1% contro la media nazionale dell’8,3%, con picchi del 10% al sud dove impatta però un minore tasso di occupazione) ma esprimono comunque 10mila addetti.
Nonostante un peso relativo inferiore, la capacità di adattamento e di innovazione delle nuove generazioni sta però tracciando un percorso interessante. La provincia mostra una contrazione più contenuta rispetto alla media nazionale, segno di un ecosistema che, pur con difficoltà, continua a offrire spazi di crescita.
Altro elemento degno di nota. In una terra storicamente legata alla manifattura si sta verificando una progressiva riduzione delle nuove imprese giovanili in settori come l’artigianato e il commercio, mentre crescono le attività nei servizi avanzati, nel digitale, nella finanza e nelle consulenze aziendali. Questo cambio di passo riflette un trend nazionale e internazionale, ma pone un interrogativo cruciale: il tessuto produttivo locale è pronto a sostenere questa trasformazione?
Il vero problema è che queste nuove configurazioni avrebbero tutte le caratteristiche per rientrare nel cosiddetto “artigianato non convenzionale”, ma per mille motivi i giovani sembrano non più riconoscersi in questa categoria professionale. Ecco perché calano loro e cala in numero degli artigiani, seppure negli ultimi anni l’Albo regionale abbia registrato un rallentamento del trend negativo. Nonostante l’artigianato sia la dimensione perfetta per sperimentare, fare rete e trovare opportunità di crescita, c’è un mismatch rispetto alle preferenze degli aspiranti imprenditori “under”, che però poi si ritrovano senza alternative migliori.
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Meno, ma più strutturati
Un dato positivo emerso è che i giovani vicentini stanno orientandosi verso modelli imprenditoriali più strutturati, come dimostra l’aumento delle scelte per le società di capitali, che oggi rappresentano già il 20% delle imprese giovanili del territorio. Questo offre un segnale importante di crescita e diversificazione, sebbene l’impresa individuale continui a essere la forma prevalente con il 73,2% delle preferenze.
Oltre a questo, vale poi la pena notare che l’87,2% delle imprese giovanili è interamente controllato da under 35, evidenziando un forte spirito di indipendenza e autonomia imprenditoriale. La vera sfida, ora, è fare in modo che questi nuovi percorsi imprenditoriali non rimangano episodi isolati, ma contribuiscano a un impatto duraturo e strutturale sul territorio, sostenendo la conservazione e l’innovazione del patrimonio produttivo.
I giovani che superano tutti gli imbuti di cui abbiamo parlato si approcciano sempre di più al fare impresa con modalità evolute già in ottica manageriale. I nuovi giovani imprenditori sono più orientati alla crescita e agli aspetti gestionali, e non solo all’autonomia operativa. E questo è un piccolo ma importante elemento positivo: il tessuto imprenditoriale che guarda al domani certamente è meno denso, ma si prospetta molto più resiliente.
La questione… capitale
Lo abbiamo anticipato qualche riga fa. Da un’indagine realizzata negli scorsi mesi dal Centro Studi CNA emerge che il 73% dei giovani imprenditori ha avviato l’attività grazie a un patrimonio iniziale di mezzi propri (46,9%) o da risorse di famiglia (26,9%).
Solo il 17,3% ha avviato il progetto imprenditoriale potendo contare in via prevalente sul credito bancario. Statistiche che sono spia di una criticità nota. In Italia, infatti, la maggior parte dei giovani che non può contare su risorse proprie o di famiglia ha dovuto abbandonare l’idea di mettersi in proprio dato che il credito bancario viene erogato col contagocce e in maniera molto selettiva.
È il fenomeno diffuso del credit crunch, che da un lato impedisce alle imprese consolidate di investire per restare sul mercato, e dall’altro sbarra le porte alle nuove attività.
Lo scenario è in lento miglioramento dato il progressivo taglio dei tassi da parte della BCE ma è importante che i giovani esplorino anche strade alternative più veloci. Oggi ai nostri aspiranti imprenditori parliamo di crowdfunding, di business angels e venture capital. Ma è soprattutto dal sistema dei nuovi confidi che si possono trovare le risposte più efficaci. Realtà come la veneta Finergis, nata dall’asse dei confidi CNA-Confindustria, che sta offrendo molte opportunità accessibili per trovare linee di finanziamento a condizioni più favorevoli, dal credito diretto alle garanzie agevolate».
Abbiamo tutti bisogno dei giovani
Quindi, da dove ripartire? Il calo delle imprese giovanili non è solo una questione di numeri, ma un segnale che impone una riflessione su come il territorio possa sostenere i suoi giovani imprenditori. Servono politiche più mirate, strumenti finanziari accessibili e una maggiore sinergia tra istituzioni, scuole e imprese.
L’artigianato ha tutte le potenzialità per essere un laboratorio di nuova imprenditorialità, a patto che si crei un ecosistema favorevole, capace di accompagnare chi ha talento e visione. Anche perché dei giovani abbiamo bisogno tutti: sono loro gli eredi delle imprese – vecchie o nuove – che creano lavoro per tutti all’interno del territorio.
Senza dimenticare che l’Italia a livello di startup (oggi inferiori alle 15.000) è indietro anni luce rispetto agli altri Paesi europei (Germania e Regno Unito ne hanno praticamente il doppio), fenomeno direttamente proporzionale al numero di “unicorni” espressi, ossia le startup che emergono fino a capitalizzare oltre il miliardo di euro (3 nel nostro Paese sulle oltre 150 un tutta Europa).
Il futuro delle imprese giovanili è ancora tutto da scrivere: la domanda è se sapremo dare ai giovani le condizioni per farlo. Noi vogliamo fare la nostra parte. Stiamo lavorando tantissimo sul formare la nuova classe di imprenditori del domani, senza lasciare indietro nessuno. E da questo punto di vista abbiamo un bellissimo progetto ai nastri di partenza, una “scuola di impresa” coordinata dai massimi esperti di business non solo locali. Poi c’è la grande battaglia per un nuovo modello di artigianato. A livello nazionale CNA si sta battendo per chiedere la revisione della legge quadro, al fine di renderla più aderente alle mutate esigenze di cui abbiamo parlato. Dev’essere una legge capace non solo di sostenere l’avvio e il mantenimento dell’impresa, ma soprattutto di incoraggiare i più piccoli a pensare da grandi, per contribuire alla crescita diffusa del nostro tessuto produttivo.