Una nuova relazione tra impresa e territorio

L'editoriale di Aldo Bonomi per lo speciale "Uniti, per una nuova impresa" realizzato in occasione dell'assemblea CNA 2020
aldo bonomi cna make in italy

In occasione dell’annuale assemblea dei soci, CNA Veneto Ovest ha lanciato su Il Giornale di Vicenza e l’Arena l’inserto “Uniti, per una nuova impresa”, coinvolgendo importanti firme del panorama nazionale con cui ragionare di prospettive per le imprese verso la fase 3. Qui l’intervento integrale di Aldo Bonomi, sociologo e direttore del consorzio Aaster.

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Con quest’analisi, profondissima e allo stesso tempo semplice da capire e condividere, Aldo Bonomi riesce a tracciare in poche righe un intero manifesto per un nuovo modello di rappresentanza. Ed è gratificante notare come CNA possa ritrovarsi molto, in questa prima ricetta per la ripartenza. Il punto fermo infatti è una battaglia che noi portiamo avanti strenuamente da diverso tempo: meno logiche partitiche o corporative nel fare associazione, più attività a sostegno delle esigenze reali delle imprese. Tutto questo continuando a essere un sistema nazionale attivo eccome, a livello politico. Come si conciliano queste apparenti contraddizioni? Lo indica Bonomi e lo mettiamo in pratica noi: lavorando uniti. Mettendo al primo posto gli interessi di un’impresa costruita dalle persone e integrata nel territorio. Creando relazioni inclusive dove l’interesse primario sia non solo generare ricchezza, ma portare anche a una redistribuzione sostenibile di valori e risorse. Questo è il nuovo futuro, che noi possiamo con orgoglio già chiamare presente.

Cinzia Fabris,

Presidente CNA Veneto Ovest

Una nuova relazione tra impresa e territorio

di Aldo Bonomi

sociologo, direttore consorzio Aaster

bonomi@aaster.it

Usciti finalmente dal tunnel della pandemia e del lockdown, scrutiamo i prossimi mesi oscillando tra paure e speranza. Si percepisce un bisogno diffuso di punti di riferimento, per provare a lenire la sensazione di fragilità esito dello sradicamento che Covid-19 ha imposto un po’ a tutti, imprese, famiglie, comunità.

È in frangenti come questi che un sistema di corpi intermedi e di rappresentanze ancora legittimate, è risorsa fondamentale per continuare a pensare il futuro. Per garantire che anche nei prossimi anni lo sviluppo sia parte del nostro orizzonte di vita quotidiana, il “guadagnare tempo” non è più una strategia praticabile. Occorre affrontare due nodi che credo centrali. Il primo riguarda le forme del valore nell’epoca dell’antropocene dispiegato. Eventi come le epidemie sembrano oggi consustanziali al modello di interconnessione globale dell’economia e della società. Di conseguenza l’impresa come luogo in cui comunità operosa e di cura si intrecciano, deve oggi uscire dalle mura della fabbrica per divenire organizzatore sociale.

Non è più soltanto un fatto di responsabilità morale e personale dell’imprenditore, quanto di ripensare la morfologia di ragnatele del valore estese, per far rientrare nel calcolo economico la rigenerazione di beni collettivi come ambiente e salute (ma anche conoscenza e coesione), che costituiscono i legami a garanzia della relazione produttiva tra l’impresa e il territorio. Ciò che per molto tempo abbiamo chiamato “esternalità”, la qualità collettiva della vita materiale e immateriale, oggi è diventata una “internalità” senza la quale l’impresa singola o in filiera, non riuscirà a cogliere i nuovi filoni del valore che intravediamo all’orizzonte.

Occorre però un salto culturale fuori da una ormai vecchia cultura che considera tutto ciò come un costo, per ripensare nuove metriche del valore anche territoriali. E’ nel proporre soluzioni e innovazioni collettive che accompagnino le imprese verso questo modello di sostenibilità, in cui la questione ambientale diventa anche questione sociale e territoriale, che io vedo aprirsi lo spazio per una nuova poliarchia di corpi intermedi e rappresentanze che sappiano essere tessitrici e negoziatrici. Utile sarebbe un patto tra comunità operosa degli interessi e comunità della cura e dell’impresa sociale, che rimetta al centro l’inclusività dello sviluppo sul perimetro delle grandi piattaforme produttive e territoriali che innervano la geografia economica e sociale del paese.

Un disegno che però può dispiegarsi non soltanto garantendo il mantenimento delle reti lunghe di mercato con le grandi catene del valore mondiali, ma affrontando finalmente il tema di un ripensamento profondo nel rapporto tra imprese e statualità, consentendoci anche di uscire dalle secche di una discussione tutta incentrata sul “quanto stato” per mettere al centro invece la questione di “quale stato”. Discussione certo più impegnativa, ma non più rinviabile per evitare che la soluzione ci venga imposta dalla verticalità dei poteri globali. Il ritorno forte della statualità come potere di ultima istanza nell’emergenza, va oggi stemperata nella capacità di pensare come intelligenza collettiva e rete di comunità concrete una statualità nuova, che rappresenti l’infrastruttura politica e amministrativa a servizio dei territori. Una statualità che accompagna ed innerva i territori con scuola, università, medicina di territorio, infrastrutture dolci delle piattaforme territoriali, dalle città sino ai piccoli comuni tenendo assieme smart city e smart land.

E che necessita per arrivare fino all’ultimo miglio dei soggetti più minuti, dei saperi sociali e della legittimazione che i corpi intermedi, nonostante le difficoltà, mantengono in questo paese. Anche il tema della pervasività delle tecnologie, dell’economia dei dati e della redistribuzione del grande potere produttivo da esse sprigionato, rappresenta un campo di sperimentazione per ripensare il ruolo delle rappresentanze e dell’impresa dentro questa idea di statualità diffusa. Nella capacità di accompagnare l’impresa a praticare queste biforcazioni che la storia ci ha posto davanti, sono convinto risieda la grande opportunità, oltre che responsabilità, che la società di mezzo ha oggi davanti.

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